In un articolo dal titolo “Una élite
segreta di banchieri governa i mercati dei prodotti derivati”, apparso l’11
dicembre 2011 sul supplemento domenicale del New York Times, Louise Story
racconta come vengano prese quelle decisioni della grande finanza che buttano
nella miseria interi stati e fanno morire di fame decine di milioni di esseri
umani.
Il terzo mercoledì di ogni mese,
scrive Story, parte dell’élite di
Wall Street si unisce a Midtown Manhattan (il centro commerciale di New York).
Si tratta di alcuni capi delle gigantesche banche d’affari JPMorgan Chase &
Company, Morgan Stanley e Goldman Sachs. Essi si sono infatti costituiti in un
potente comitato sostanzialmente clandestino il cui obiettivo è la protezione
degli interessi delle loro banche nei mercati dei prodotti derivati: uno dei
settori, come le assicurazioni, più lucrativi, a rischio e ovviamente
controversi della finanza. Il contenuto delle loro discussioni e decisioni è totalmente
riservato e lo è pure la loro identità. Questo comitato, sottolinea Story,
pretende di operare a tutela dell’integrità di mercati che muovono una quantità
enorme di miliardi di dollari: in realtà esso opera a difesa del dominio
acquisito in questi mercati dalle loro banche, nei due anni successivi alla
crisi finanziaria. Tra le operazioni che esso direttamente e indirettamente
conduce, attraverso campagne mediatiche e sovvenzionando componenti ed
esponenti della politica, sono sia l’impedimento di una legislazione che
informi il pubblico dei risparmiatori statunitensi su prezzi, commissioni e
livelli di rischio dei vari prodotti finanziari (e di quelli derivati in
particolare) che l’impedimento al rientro in questi mercati da parte di altre
banche statunitensi. In queste azioni questo comitato ha dalla sua la minaccia
di boicottaggio alla Camera dei Rappresentanti da parte dei parlamentari
repubblicani, molti dei quali hanno ricevuto dalle sue banche importanti
contributi finanziari per la loro campagna elettorale. Anzi una votazione che
proponeva prezzi più trasparenti dei derivati è già stata cancellata, ai primi
di novembre.
Quanto i prodotti derivati
costino ai cittadini statunitensi non è chiaro ma è indubbiamente molto. La
dimensione e l’area operativa dei loro mercati sono cresciute rapidamente negli
ultimi due decenni. I fondi pensione oggi usano prodotti derivati come
protezione dei propri investimenti. Stati federati e municipalità li usano per
ridurre i costi dei denari presi a prestito. Le compagnie aeree li usano per
tenere bassi i prezzi del carburante. Le imprese del settore alimentare li
usano per bloccare i prezzi di grano e carne. E’ un fatto che il volume globale
in valore dei prodotti derivati si è decuplicato dal 1998 al 2008, calando poi
solo di un decimo circa nei due anni della crisi economica in corso. Ed è un
fatto che attualmente questo volume sta ora ripartendo alla grande.
Paradossalmente la
capacità delle grandi banche d’affari statunitensi di impedire alle banche minori
di entrare nei mercati dei prodotti derivati è cresciuta grandemente proprio
nel momento più drammatico di quella crisi finanziaria del 2008 della quale
queste banche sono state le fondamentali responsabili. La preoccupazione
principale nel marasma di quel momento era data dal fatto che nessuno, comprese
le agenzie federali preposte alla regolazione dei mercati finanziari, riusciva
a definire l’entità dei rischi di collasso di questi mercati (e, di
conseguenza, di collasso dell’economia nel suo complesso) derivanti
dall’andamento pesantemente negativo dei credit
default swaps: dei prodotti derivati costituiti da contratti che assicurano
contro il fallimento di imprese o di mutui ipotecari. Per esempio l’American
International Group, cioè la sesta società di assicurazioni mondiale, con sedi
strategiche oltre che a New York a Londra e Hongkong, che aveva realizzato credit default swaps con una quantità di
banche, aveva rapidamente perso nella Borsa di Wall Street il 40% del suo
valore: donde un’ondata di panico. Perciò data questa situazione le agenzie
federali ordinarono alle banche di realizzare rapidamente “camere di
compensazione” in grado di gestire e limitare i movimenti caotici dei prodotti
derivati. Di queste “camere” ne furono costituite tre, a opera delle
finanziarie Intercontinental Exchange (ICE) e Chicago Mercantile Exchange e del
Nasdaq (il mercato borsistico via web
che tratta soprattutto titoli tecnologici). Queste “camere”, oltre a impedire
che momenti di mancanza di liquidità potessero determinare il crack di banche o altri istituti
finanziari, dovevano disporre di “comitati di rischio” nei quali i vertici
delle banche avrebbero dovuto produrre regole in grado di ridurre i rischi dei
prodotti derivati. Ma le grandi banche d’affari, non solo statunitensi, videro
in questi “comitati” una grande opportunità per le proprie convenienze, cioè,
concretamente, per imporre una loro posizione oligopolistica nei mercati dei
prodotti derivati. La riservatezza circa i nomi dei membri di questi “comitati”
e le loro discussioni e decisioni particolari impedisce un ragguaglio completo
di come quest’opportunità sia stata praticata. Tuttavia l’elenco delle banche
partecipi con loro figure direttive di primo piano al “comitato di rischio”
dell’ICE dice già molto, dato il rapporto di forze nei “comitati” a tutto
vantaggio delle grandi banche d’affari che esso esprime: troviamo infatti in
quest’elenco le statunitensi JPMorgan Chase & Company, Morgan Stanley,
Goldman Sachs, Bank of America, le britanniche Barclays e Citigroup, le
svizzere UBS e Credit Suisse, la tedesca Deutsche Bank.
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